Motore immobile e causa prima di ogni divenire, Essere fuori dal tempo incarnato nella storia. Non basterebbero le parole per riuscire a elencare i tanti nomi di Dio, potendo appena scorgere un raggio della Sua luce attraverso l’uso di un numero sorprendente di ossimori.
Ma vorrei brevemente tentare di parlare di Lui partendo da quello che è forse il suo attributo per eccellenza, secondo le parole di chi Dio ce l’ha pienamente mostrato, Gesù: “E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo.” (Matteo 23, 9)
La paternità di Dio è un mistero profondo e coinvolge una molteplicità di significati dalle diverse dimensioni interpretative nelle pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento. Se a livello teologico Dio è Padre in virtù della relazione misteriosa con il Figlio, seconda Persona trinitaria, focalizzando l’attenzione sulla Rivelazione la figura del Padre è presentata come potenza generatrice; impronta originaria del creato che irradia profondamente l’essenza di tutte le creature. Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica di Giovanni Paolo II, l’attributo della paternità divina sottolinea il ruolo primario e trascendente di Dio nella creazione ma anche la sua sollecitudine verso i figli, aspetto che marchia indelebilmente la condizione umana.
Una condizione che tuttavia fa i conti con le conseguenze della caduta dalla grazia originaria e appare caratterizzata da inquietudine, ricerca, dallo scorrere inesorabile del tempo. Noi esseri fragili la cui vita, seppure preziosissima, si esaurisce nel tempo di un attimo, sperimentiamo molto bene cosa significhi vivere nella storia. Le grandi dinamiche che la attraversano sono portate a compimento nel corso di secoli in modo non lineare, coinvolgendo la nostra dimensione interiore e la percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo.
Scoperte scientifiche e avanzamenti filosofici, esplorazioni geografiche e sensibilità artistiche, ma anche tutte le implicazioni di una modernità particolarmente liquida, incidono nel difficile rapporto che intercorre fra la trascendenza dell’anima e la nostra sensibilità di esseri mortali. In questa difficile condizione umana si colloca tuttavia il discorso teologico, capace di illuminare la nostra consistenza creaturale attraverso l’autorivelazione di Dio, che ci insegna chi realmente siamo nell’orizzonte di una corretta antropologia.
Come visto, pur nella sua inquietudine, l’uomo è attraversato da una dinamica inesauribile che sembra trascenderlo, portandolo a una ricerca che si esprime nei più svariati campi della vita e risuona in un universo in costante mutamento. Scintilla che sembra ricondurci all’atto della creazione per mezzo del Logos, unione per eccellenza tra parola eterna e azione dinamica. La nostra vita è quindi portatrice di un desiderio profondo che richiede di essere accolto nella sua verità e trova il suo senso nell’essere stati creati a immagine di un Padre che ci ha voluto liberi.
Ma questa libertà, nel contesto di una realtà profondamente deformata dal peccato, entra spesso in collisione con una mondanità che la intende sciolta da ogni vincolo o logica, sotto gli stendardi di un fantomatico nuovo ordine. La totale abolizione del senso del limite disperde anche la dimensione antropologica che ci permette mettere ordine alla nostra libertà, insegnandoci come mettere in gioco quella scintilla che ci abita da quando Dio disse la prima volta “Fiat lux”.
L’esperienza umana è segnata da un desiderio che “è sempre desiderio dell’Altro”. Con queste celebri parole, la psicanalisi ci mostra come la dinamica che attraversa l’uomo trovi il suo senso in un desiderio che lo trascende. Il significato di questa affermazione è cruciale. Si fa riferimento a un Altro con la A maiuscola, qualcosa che non trova riscontro in un legame genitoriale, amicale, o coniugale, né nel possesso di un grandissimo numero di beni. Una corrente inconscia, anzi un discorso, che è il luogo più intimo in cui la psiche umana entra in relazione con l’esperienza di fede, radicandosi molto profondamente nelle fasi iniziali della nostra vita.
Il rapporto con l’alterità è infatti una scoperta che si fa molto piccoli, quando a pochi mesi, davanti a uno specchio, prendiamo coscienza della nostra esistenza come individui staccati dal contesto e da chi ci accudisce, ma fatichiamo ancora a mettere a fuoco il significato della nostra identità. Carenti ancora del senso, lo cerchiamo attraverso la relazione con un’alterità dalle caratteristiche ideali ma umanamente incarnata proprio dalla funzione paterna.
Nel binomio madre-figlio, che rappresenta paradigmaticamente la forma relazionale primaria, la funzione paterna è quindi quell’alterità che permette l’identificazione di noi stessi in quanto individui, un punto di mediazione con il reale capace di insegnare il senso del limite, ma soprattutto un luogo particolare di riconoscimento. La funzione paterna, tuttavia, non è strettamente sovrapponibile alla paternità naturale, identificandosi invece con alcuni dei suoi tratti fondanti tra cui il più significativo rimane quello di mettere ordine nel desiderio.
In questi pochi passi emerge tutto il significato simbolico dell’alterità nella costruzione del nostro mondo interiore e psichico, in una primissima fase mediato dalla funzione paterna genitoriale. Ma emerge anche il valore ideale che noi attribuiamo a questa alterità che nessun legame umano è in grado di soddisfare, mettendoci in contatto con un desiderio innato alimentato grazie al motore di una mancanza insanabile e misteriosa. In questo orizzonte si gioca il senso più profondo della nostra esistenza, poggiando sull’esigenza di essere riconosciuti in modo particolare da quell’Altro che trascende l’ideale ed è Nome del Padre per eccellenza, sorgente di senso per tutte le mancanze della vita.
Come dice Gesù, “uno solo è il Padre vostro” e va oltre ogni costruzione ideale, orientando il desiderio che ci trascende. Ma la ricerca suscitata da questa mancanza innata, motore primo del nostro desiderio di trascendenza, non si esaurisce mai finché viviamo questa vita terrena.
Nel nome del Padre sono le prime parole che pronunciamo facendo il segno della croce. Padre nostro, sono quelle di Gesù che ci insegna a pregare. Chissà se è solo un caso, ma in queste formule sembra intuirsi il senso profondo della filiazione, dell’appartenenza, quell’orizzonte di significato identitario che solo Dio è capace di suscitare, sulle corde di una paternità totalmente autentica; l’unica possibile.
La paternità che ha Dio verso di noi proietta la vita su questa terra verso un’altra dimensione, non una promessa di infinito ma una certezza che si colloca alla fine del tempo.
Virginia Mondello Gruppo Giovanile Domenicano "S. Tommaso d'Aquino" (Roma)
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