Domenico e i suoi vissero in un momento storico particolarmente critico e transitorio; incomodo al punto da essersi sbrigativamente guadagnato il titolo di “secoli bui” dai figli dell’Illuminismo europeo. Un tempo-cerniera, contornato dal tramonto dei feudi e dallo sbocciare dei comuni; da crociate e da monarchie nazionali; dalla nascita di banche e di università; dall’invenzione della carta e dalla scoperta di nuove rotte mercantili, che portarono all’incontro tra genti antiche e genti nuove. Il tutto condito con una generosa spruzzata di disistima per la Chiesa e gli ecclesiastici, che tra mal costumi e corruzioni varie avevano diffuso nel popolo un olezzo assai lontano da quel dolce profumo di Cristo che siamo chiamati a emanare (2Cor 2,15).
I decenni a cavallo del XII-XIII secolo furono una sorta di mini-globalizzazione, scrive Timothy Radcliffe «niente di nuovo sotto il sole», sentenzierebbe oggi Qoèlet (Qo 1,9).
Ecco che Domenico di Guzmán, questo uomo «dal bel viso e la carnagione rosea, dai capelli e la barba tendenti al rosso e gli occhi belli», si è trovato ad affrontare sfide non troppo diverse dalle nostre, in un contesto sociologico un tantinello liquido anch’esso e tempestato di domande di senso, di ricerca spirituale e di una gran confusione in generale.
Ecco pure che Domenico, nonostante i suoi più che 800 anni suonati (1170 ca. - 1221), è ancora capace di parlare a noi fiacchi naviganti di questo fagocitante tutto-digitale, che tutti può collegare e tutti può isolare. E lo fa secondo il suo inconfondibile stile col quale ha saputo cavalcare la cresta dell’onda del suo tempo: parole scritte manco a pagare, ma un avatar meraviglioso e dinamico, scrupolosamente tratteggiato dal fedele Giordano di Sassonia (1176-1237), suo primo biografo e successore nell’alto ufficio di Padre dei Predicatori:
«C’era in lui qualcosa di ben più splendente e meraviglioso degli stessi miracoli. Era tale la perfezione morale dei sui costumi, tale lo slancio di fervore divino che lo trasportava, da non potersi minimamente dubitare ch’egli fosse un vaso di onore e di grazia. Aveva una volontà ferma e sempre lineare, eccetto quando si asciava prendere dalla compassione e dalla misericordia. Senza difficoltà appena lo conoscevano, tutti cominciavano a volergli bene. Dovunque si trovasse, sia in viaggio coi compagni, sia in casa con l’ospite e la sua famiglia, oppure tra i grandi, i principi e i prelati, con tutti usava parole di edificazione. Il giorno lo dedicava al prossimo, la notte a Dio, ben sapendo che Dio concede la sua misericordia al giorno e il suo canto alla notte. Accoglieva tutti gli uomini nell’ampio seno della sua carità e perché tutti amava, da tutti era amato»
Domenico fu un uomo traboccante di Buona Novella… una roba incontenibile! Una vita nuova in Cristo, che lo aveva plasmato fin dal grembo di sua madre (cfr Is 49,1) e che spontaneamente fuoriusciva da lui e si comunicava agli altri. Non ha lasciato regole ai suoi frati, se non l’amore per lo studio, la preghiera, la comunità; un amore aperto e convergente a conseguire quella libertà di ingegnarsi in ogni forma possibile, ogni strumento possibile, ogni occasione possibile, per annunciare il Vangelo e far innamorare di Cristo; rispettando il tempo, lo spazio e il cuore di ciascuno.
In una società che oggigiorno assume sempre più le fattezze degli algoritmi e invita a porre ogni affanno sotto la nebulosa egida dell’intelligenza artificiale, Domenico conserva tutta la sua fresca energia per accompagnarci alle porte del metaverso e incoraggiarci a non temere, a non lasciar assuefare lo spirito, a non chiudere in cantina l’intelligenza naturale, primo dono che quel pazzerello di Dio ha fatto alla sua creatura, perché fosse essa stessa lode della sua gloria (cfr Ef 1,12).
Il grande teologo e pastore riformato Karl Barth (1886-1968) amava ripetere che la teologia – che per definizione è “intelligenza della fede” – va fatta con la Bibbia in una mano e col giornale nell’altra. Prendendo a prestito questa efficace immagine, il maestro dell’ordine Vincent de Couesnongle (1916-1992) scriveva nell’ormai lontano 1983 che anche la predicazione domenicana va fatta Bibbia e giornale alla mano, perché la contemplazione della Parola e la contemplazione della strada possano sempre aprirci a un rapporto vivente con Dio, dal quale attingere quella sapienza, quella misericordia e compassione che permise al Padre dei Predicatori di non separare le cose di Dio dalle cose degli uomini, ma a continuamente unificarle nel cuore e farle uscire trasfigurate, in parole e gesti pregni di grazia pasquale.
Se Domenico vivesse ai giorni nostri con tutta probabilità non avrebbe bisogno di tenere impegnate le due mani. Gliene basterebbe una, per impugnare lo smartphone e accedere alla Parola di Dio e alle parole degli uomini, cosciente ben più di noi che quello digitale ormai non è uno strumento, né una opzione operativa. È l’ambiente che abitiamo, volenti o nolenti, e che ci avvolge al punto da poter riporre nel cassetto ogni vetusta e ormai illusoria distinzione tra modalità online e offline.
Perché oggi, come insegna il filosofo Luciano Floridi (1964- ), tutto quanto accade e si fa mentre la vita scorre, restando collegati a dispositivi interattivi, costituisce la forma onLife del nostro stare e agire al mondo. Dalla videoconferenza all’accensione a distanza del climatizzatore, dal bonifico bancario all’invio di materiale catechetico, dall’audio-commento del vangelo al semplice e benedetto messaggino di incoraggiamento umano e chiarimento del dubbio… tutto è onLife, tutto è vita interattiva.
E in effetti Domenico è stato molto interattivo, molto onLife, un vero precorritore dei tempi odierni. Proprio per quel suo essere fin dal suo nome “tutto di Dio” e tutto degli uomini; pieno di ardore contemplativo e pieno di slancio apostolico; umile costruttore di comunione ecclesiale in una società parecchio frammentata. Proprio perché scelse la mendicità del suo ordine, che favorisse fiducia ed empatia con gli uomini e liberasse gli uomini dalle ipocrisie ereticali. Proprio perché volle i suoi conventi alle porte delle grandi città, per poter raggiungere tutti e da tutti farsi raggiungere, di giorno e di notte. OnLife… decisamente!
In questo splendido giorno, in cui celebriamo la sua nascita al cielo, mi piace immaginare San Domenico come nostro contemporaneo, gioviale nel viso, profondo nello sguardo… magari che attende sulla porta del convento i suoi giovani frati di ritorno dalla GMG; con lo scapolare più stropicciato del loro, ovviamente, e uno smartphone ammaccato nella mano.
E dell’altra mano? Che ne facciamo? Per ora è libera e a ciascuno l’inventiva di “occuparla”. Io me l’immagino intenta a recuperare semplici gesti di minuta ed edificante fraternità, che di per sé sarebbero anche banali in un mondo normale, ma che in una società post-pandemica qual è la nostra preferiamo ancora trattenere, in nome di una rispettosa e tiepidizzante prudenza.
Santo padre Domenico, compi la tua promessa, e prega per tutti noi!
Suor Federica Casaburi
Congregazione Romana di San Domenico
Testi di riferimento:
Timothy Radcliffe, L’annuncio nel mondo liquido, in Luoghi dell’infinito, 264 [2021], pp. 68-71.
Cecilia (suor), I miracoli del Beato Domenico, in Pietro Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998, p. 413.
Giordano di Sassonia, Libellus de Principiis Ordinis Prædicatorum, nn. 103-109, in Pietro Lippini, San Domenico visto dai suoi contemporanei, ESD, Bologna 1998.
Caterina da Siena, Orazione X, in Giuliana Cavallini (a cura di), Le orazioni di S. Caterina da Siena, Cantagalli, Siena 1993, pp. 87-92.
Vincent de Couesnongle, Lettera sulla dimensione contemplativa della nostra vita domenicana, in Parole di grazia e di verità. Lettere dei Maestri Generali ai Frati e alla Suore dell’Ordine Domenicano, ESD, Bologna 2004, pp. 134-137.
Luciano Floridi, The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Springer Open, 2015 su https://link.springer.com/chapter/10.1007/978-3-319-04093-6_2.
Immagini.
Immagine di Hohenzollern, Castello, Collina. Foto di Paul Henri Degrande da Pixabay
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