Qualche volta, nella nostra vita, ci sembra di vagare nel buio dell’incertezza. La sete di trovare il nostro posto nel mondo si scontra con gli eventi talora incomprensibili dell’esistenza: storie d’amore finite; un lavoro che ci piace ma che ci lascia, comunque, insoddisfatti; relazioni familiari ferite. E ci diciamo: “Signore, ma cosa vuoi da me? Non ci capisco più niente!”.
Sono questi i momenti in cui facciamo esperienza di quella che Santa Caterina da Siena chiama la “notte del conoscimento di sé”. Al suo amato discepolo Stefano, la santa scrive una lettera subito dopo che il giovane è stato rinchiuso in prigione dai bretoni, per una notte. “Quanta pace hai avuto nel cuore” gli scrive “quando a voi, agnelli in mezzo a quei lupi, fu detto da loro: ‘andate in pace!’” (Lett. 365). Una simile pace sperimentiamo anche noi quando, prigionieri dei nostri tanti pensieri, ci conformiamo, però, alla volontà di Dio. E accettiamo anche le lotte, le contraddizioni, i dubbi, le incertezze e persino le paure che, talvolta, abitano il nostro cuore. È il “tempo della guerra” e di un più o meno forte senso di solitudine. Nel momento in cui accettiamo anche tutto questo come volontà di Dio, però, già iniziamo a gustare la pace.
Ma perché dobbiamo passare per questi momenti di faticosa ricerca? Non potrebbe il Signore donarci subito la luce e mostrarci con chiarezza il suo disegno sulla nostra vita? Per spiegare l’inconvenienza di questa eventualità, Caterina riflette con Stefano sull’esperienza da lui recentemente vissuta. “Ricordati” – gli dice, e qui parafrasiamo le sue parole – “che tu sei stato preso da quei malintenzionati non nel tempo della notte, ma di giorno!”. E continua: “Pensaci, dolcissimo figliuolo, che, mentre che tu starai nella notte del vero cognoscimento di te, tu non sarai mai preso”.
La notte, dunque, sembra essere, paradossalmente, il tempo della sicurezza. Quella notte che vorrei fuggire con tutte le mie forze; quell’oscurità che sembra offuscare la mia vista; quella nebbia che non mi permette di guardare “oltre” per intuire cosa succederà più avanti e dove mi porterà la strada che sto percorrendo, non è che il rovescio del meraviglioso e perfetto ricamo che Dio sta disegnando nella mia vita. Se io mi ostinassi a voler “passare prima al dì del cognoscimento di Dio, che alla notte del cognoscimento di sé, l’anima sarebbe presa dai nemici suoi”. Se, cioè, vedessi subito con chiarezza il progetto di Dio sulla mia vita; se facessi esperienza della sua “potenza” prima di conoscere la mia fragilità, penserei che tutto ciò che faccio e vivo sia opera mia. Inizierei a insuperbirmi e a convincermi che tutto dipende da me. Paradossalmente, scivolerei lontano da quel Dio che cerco, che mi ama e che desidero amare.
Nella “notte”, invece, sento che senza di Lui io non sono niente; faccio esperienza che sono una creatura e Lui il mio Creatore; inizio a cercare con tutte le mie forze l’acqua che, sola, può dissetare la mia vita. “Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato” (Ct 3,1), ho letto nelle Scritture. Ora, finalmente, quella Parola sta diventando vita. Tocca la mia carne.
“E perciò” dice la giovane senese al suo figlio spirituale, “voglio che tu sempre riposi tra ‘l dì e la notte; cioè cognoscendo te in Dio, e Dio in te”. E “allora troverai, che, se i nemici t’avessero legato, e ingombrato il cuore di molti e vari pensieri, riceverà il cuore l’aurora”. Cioè, proprio dentro questa esperienza della tua fragilità, farai esperienza della tenerezza e della misericordia di Dio. E imparerai a stare “dentro”, nelle profondità dove sono i tuoi sogni e dove Dio ti abita. “Ora sei nell’aurora, che non ti lascia discernere la virtù” e ti sembra di non vedere la strada. Perché non sei ancora nel tempo del sole. Ma presto il sole sorgerà e sentiremo “quella dolce parola: ‘Lascia che i morti seppelliscano i loro morti: tu vieni e seguimi’”. Allora “quando ti senti chiamare, fa che tu risponda” (Lett. 369).
Ai suoi tanti, giovani amici Caterina ha insegnato, col tempo, a fissare il proprio sguardo nell’occhio di Dio: l’occhio ineffabile della sua carità “col quale ragguardò (e ragguarda) la sua creatura, prima che ci creasse”. E “se ne innamorò smisuratamente”. Quando arrivano in monastero i giovani della GioDom vedo sguardi pieni di bellezza. Occhi lucidi perché toccati dalla grazia. Cuori amati e guariti da Gesù, innamorato di ognuno e di ognuna di loro. A ciascuno, oggi, Caterina dice ancora: “Rispondi, rispondi, figliuolo negligente; apri la porta del cuore tuo: ché grande villania è che Dio stia alla porta dell’anima tua, e non gli sia aperto” (Lett.205). E ricorda che nella “cella” della tua anima tu “trovi tutto Dio. Il quale dà [all’anima] tanta dolcezza e refrigerio e consolazione” che niente la può turbare perché “ella è fatta capace della volontà di Dio” (Lett. 241). E che “io ti veda correre in qualunque parte tu meglio possa compiere la volontà sua” (Lett. 324).
Sr. Mirella Caterina Soro OP
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